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LINDA ALBORGHETTI & MARCO BELLINI
di Michele Amaglio
01.04.2017









Il caso svolge un ruolo molto importante nel lavoro di Linda Alborghetti e Marco Bellini, giovane coppia di artisti italiani che attualmente lavora a Berlino. Una casualità che racchiude spontaneità ed irrazionalità in cui il quotidiano, la scultura ed il fallimento diventano parole chiave di processi creativi. Il lavoro di questo giovane duo di artisti spazia tra la scultura e la fotografia attraverso un’indagine visiva sui fenomeni che accadono quotidianamente nel tessuto urbano. Scultura e fotografia dialogano costantemente nel porsi come traduttrici delle tensioni tra razionalità e casualità, creazione ed errore.


Linda Alborghetti e Marco Bellini fanno uso di oggetti trovati per poi essere reinterpretati attraverso nuovi contesti. Una pratica che richiama al modello del ready-made di Duchamp, in cui l’atto compiuto dall’artista non risiede nel creazione ma nella scelta di un oggetto, che una volta decontestualizzato assume nuovo significato. L’uso da parte di questa coppia di artisti di oggetti trovati assume un ulteriore messaggio politico, se concepito come critica alla razionalità ed al funzionalismo: alla società dello spreco. In questo quadro i ready-made di Linda Alborghetti e Marco Bellini si riappropriano dello scarto come punto di partenza per una riflessione. Un esempio si può trovare nell’esposizione Glue and Glitters, presentando una cornice rotta di una finestra: l’oggetto, ritrovato prima di essere gettato, viene decontestualizzato se appeso ai muri di una galleria. In questo modo lo spettatore è invitato a considerare le forme e la nuova funzione di qualcosa che prima veniva considerato uno scarto.






Il riferimento a Duchamp non è casuale. Il lavoro di questa coppia di artisti richiama molte tematiche legate alle avanguardie di inizio novecento. Temi come l’irrazionale, il non-sense o la casualità sono di forte stampo dadaista, nate in un periodo di forti tensioni socio-economiche da intellettuali ed artisti rifugiatisi in Svizzera all'impazzare della grande guerra. DADA definito da Hans Arp come “la rivolta dei non-credenti contro i miscredenti” (1), ha rappresentato il rovesciamento dei valori borghesi e la negazione di valori, etica ed estetica: l’arte contro l’arte stessa. L’arte contemporanea sembra aver recuperato lo spirito dadaista nel voler farsi beffa della razionalità tanto elogiata da una società che, al contrario, dimostra di aver perso la ragione. In questo modo l’arte torna ad assumere un messaggio di sottofondo estremamente politico, volto a rovesciare le poche certezze rimaste. Il lavoro di Linda Alborghetti e Marco Bellini prende in prestito questo spirito nel volersi fare beffa del funzionalismo, dei preconcetti e della razionalità attraverso le loro installazioni. In “Le cose che ti ha detto il contrario” (2016) troviamo un paio di stivali di gomma con la punta tagliata, tre immagini scattate erroneamente stampate su formati volutamente imprecisi nelle dimensioni e una tanica con un pallone difettoso. In questo caso l’opera diventa una critica ai paradigmi ed ai canoni dell’arte compiendo di fatto un atto anti-estetico contro l’arte stessa.


Oltre alla scultura, la fotografia gioca un ruolo molto importante nella ricerca di questa coppia di artisti in cui il materiale urbano, trattato analogamente alle opere scultoree,  diventa punto di partenza per un’indagine sul vivere la città. Le forme spontanee che nascono dal continuo cambiamento del tessuto urbano, formato da impalcature, transenne, materiale da costruzione ed architetture temporanee diventano per il lavoro di questo duo uno spunto per installazioni ed opere scultoree. La fotografia in questo rappresenta uno strumento per isolare le forme ed indirizzare lo sguardo dello spettatore ai dettagli della quotidianità urbana.


“Collezioniamo immagini quotidianamente come fosse una cosa maniacale, ma anche totalmente automatica e naturale. Per noi gli accumuli, le macerie, i mezzi, le persone, gli animali domestici, le cose cadute e coperte, le architetture temporanee… diventano oggetto di indagine.”









Da questo archivio nascono i lavori “File Away” e “Covered Things” in cui le immagini di archivio vengono reinterpretate sotto forma scultorea. “File Away” in particolare indaga sul rapporto tra immagine e display attraverso l’uso di diversi metodi espositivi non convenzionali alla fotografia, ma spesso usati nell’ambito commerciale. Un espositore per articoli a metraggio, quindi solitamente utilizzato per tessuti o carte ad uso commerciale, viene utilizzato come espositore di tre grandi immagini. Lo spettatore è così invitato ad interagire modificando la porzione visibile della stampa, rendendo però impossibile mostrarle per la loro interezza. Un espositore per riviste immobiliare supporta 1000 fotografie impaginate a coppie su 500 A4, invitando lo spettatore a prenderne una copia.

Ogni persona avrà così un’esperienza differente dell’opera, consumandola via via che le copie vengono portate via. E ancora, due fotografie vengono affisse nei tabelloni per annunci, utilizzando dei supporti preesistenti e restituendo le immagini a dominio pubblico; successivamente i due tabelloni vengono ri-fotografati ed incorniciati in maniera tradizionale. L’immagine così subisce diversi processi espositivi, stratificati in un'unica forma. In questo lavoro la fotografia è chiave in quanto strumento di indagine sulla realtà quotidiana, capace di isolare forme e fisicità dal mondo urbano e punto di partenza per una ricerca sui metodi di riproduzione dell’immagine. L’immagine viene così reinterpretata attraverso diversi metodi di display come un espositore per articoli a metraggio, le strutture per le affissioni pubbliche  o un espositore per annunci immobiliari.

Il lavoro di Linda Alborghetti e Marco Bellini si appropria di alcuni processi appartenenti al passato, primo fra tutti l’approccio dadaista alle forme d’arte, per proporre la propria visione dell’esperienza contemporanea. Le loro installazioni risultano frutto di casualità, irrazionalità ed esaltazione dell’errore che nella loro semplicità lanciano un messaggio chiaro ed incisivo, a volte antiestetico contro il sistema arte stesso.




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