FOLK —AARON SCHUMAN
di Benedetta Casagrande
30.03.2017
Pubblicato in luglio 2016, Folk di Aaron Schuman rappresenta l’indagine da parte dell’autore nelle proprie radici polacche. Questo viaggio di riconnessione e di ricerca nelle sue radici culturali si avvia con una stretta collaborazione con il Museo Etnografico di Cracovia e il suo team di curatori, ricercatori e coordinatori, che diventano la sua principale guida nella comprensione delle tradizioni locali per mappare le sue proprie origini culturali. Nonostante la natura personale del progetto, considerare Folk come una mera investigazione delle radici familiari del fotografo sarebbe una riduzione di ciò che compie il progetto. Durante la sua ricerca etnografica Schuman rivela e sottolinea l’importanza dei processi di conservazione delle tradizioni locali ed il rapporto con i dipendenti del museo e la loro e la loro determinazione nel voler preservare e tramandare le credenze culturali.
Americano-Polacco di quarta generazione, Schuman rivela attraverso le email scambiate con il direttore del Museo che i materiali etnografici con cui viene a contatto risultano “vagamente familiari, e nel contempo particolarmente esotici ed estranei”. Questa sensazione è palpabile attraverso il progetto, che traspira una affascinata distanza tra il fotografo e i materiali osservati. Sotto un punto di vista estetico le immagini appaiono volendo utilizzare un termine freudiano heimlich, evocando una sensazione di familiarità e simultanea mancanza di essa. Freud propone che il termine heimlich “non è inequivocabile, ed appartiene a due gruppi di idee che, senza essere in contraddizione, sono assai differenti: da un lato significa ciò che è familiare [...] dall’altro, ciò che è celato e nascosto alla vista”, quindi sconosciuto.
Non lontane dalle immagini spettrali di Adam Fuss, alcune delle immagini di Folk perseguitano l’immaginario, stimolando la memoria e certe associazioni visive legate ai rituali Pagani e al culto della terra, come la falce e le bambole intagliate a mano. I ritratti etnografici che documentano i costumi locali esercitano il medesimo effetto, riportando alla luce i corpi di donne scomparse che evocano l’immaginario collettivo culturale pur essendo concretamente esistente in un passato remoto. Grazie alla presenza di nuove fotografie a colori il progetto forma un mosaico i cui tasselli ci portano avanti ed indietro nel tempo, permettendoci sia di penetrare nei misteri delle narrative Polacche che di comprendere la loro presenza diretta nella storia contemporanea. Questo simposio di immagini ci permette di entrare nel vivo della ricerca stessa, partecipando al brivido della scoperta e preservazione, fulcro del lavoro del Museo Etnografico e dell’autore stesso.
La gamma di immagini offerte crea un parallelo interessante tra il processo fotografico dell’artista e la pratica di ricerca dei dipendenti del museo. Concentrandosi sugli apparecchi specifici coinvolti nella accumulazione e categorizzazione di materiale etnografico - che includono fotografie approcciate come oggetti e utensili che assumono significato grazie al loro utilizzo fisico e tattile - il progetto sottolinea la rilevanza delle fotografie etnografiche intese come oggetti materiali con un valore sociale specifico. Nel saggio The currency of Photographs, prof. John Tagg afferma come la fotografia intesa in maniera fisica, abbia assunto un valore di scambio: gli oggetti venivano prodotti attraverso uno specifico, elaborato metodo di produzione e venivano distribuiti e consumati all’interno di determinate relazioni sociali: pezzi di carta che si passavano di mano in mano e trovavano un uso, un significato e una valuta attraverso determinati rituali sociali”. Questo modello permette di dare egual peso al contenuto figurativo e al valore di utilizzo per il quale le immagini vengono accumulate, scambiate ed esposte, dandogli valore sociale.
Nel suo testo Material Beings: Objecthood and Ethnographic Photographs Elizabeth Edwards sottolinea che “tali domande [riguardo alla materialità] permettono anche di considerare diversamente le qualità performative, fenomenologiche ed empiriche delle fotografie e la loro biografia sociale, rendendole oggetti socialmente prominenti e in movimento nello spazio e nel tempo.” Interagendo direttamente con il materiale fotografico del Museo Etnografico piuttosto che unicamente con gli oggetti di archivio, Schuman partecipa nell’incremento del valore sociale delle fotografie-oggetto. Questa contribuzione viene aumentata dalla produzione di nuovo materiale fotografico da parte del fotografo; producendo nuovo materiale, lui stesso partecipa nell’espansione e contestualizzazione della tradizione dell’archivio antropologico, permettendo un’interazione fresca con i materiali di archivio.
Nel suo testo Material Beings: Objecthood and Ethnographic Photographs Elizabeth Edwards sottolinea che “tali domande [riguardo alla materialità] permettono anche di considerare diversamente le qualità performative, fenomenologiche ed empiriche delle fotografie e la loro biografia sociale, rendendole oggetti socialmente prominenti e in movimento nello spazio e nel tempo.” Interagendo direttamente con il materiale fotografico del Museo Etnografico piuttosto che unicamente con gli oggetti di archivio, Schuman partecipa nell’incremento del valore sociale delle fotografie-oggetto. Questa contribuzione viene aumentata dalla produzione di nuovo materiale fotografico da parte del fotografo; producendo nuovo materiale, lui stesso partecipa nell’espansione e contestualizzazione della tradizione dell’archivio antropologico, permettendo un’interazione fresca con i materiali di archivio.
Alla fine del libro troviamo le email scambiate tra il fotografo e i dipendenti del museo, che rivelano l’insieme di relazioni nate attraverso la produzione del progetto. Esse sottolineano come il progetto sia risuonato nelle vite personali di ogni soggetto coinvolto. Nell’accurato tentativo di riconnettere con le proprie origini, Schuman ammette che “il passato della famiglia, nonostante fosse presente, appariva comunque lontano, muto e flebile” e che la sensazione di estraneità al suolo locale non l’ha abbandonato durante il corso del progetto. Nonostante la mancanza di connessione con territorio, Schuman trova i suoi “folks” tra i ricercatori e gli etnografi del museo che, d’altro canto, stimolati dalle ricerche del fotografo, riconnettono con le loro storie personali. Il libro chiude con un’email di Magdalena Zych, coordinatrice del museo, che rivela la storia di una collana di coralli passata di generazione in generazione dalle donne della sua famiglia, dandole l’impressione che esse “siano ancora un po’ qui, nel mondo dei vivi”.
Il lavoro di Schuman trapassa con grazia i livelli della storia invitandoci ad avvicinarci ai tanti aspetti complessi del materiale fotografico etnografico d’archivio e ai processi che lo precedono, permettendoci di partecipare negli aspetti più interessanti della ricerca e della scoperta che ne consegue. Folk illumina gli aspetti più sensibili dell’istinto alla scoperta e alla conservazione: la memoria, la temporalità, e il tentativo di comprendere la propria identità attraverso la scoperta di oggetti antropologici, potenti nel loro valore sociale che riverberano tradizioni passate nella nostra vita contemporanea.
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