BOUNDARY AS A FRAME - RUMORE PAIR
intervista di Dimitri D’Ippolito
10.04.2017
Rumore Pair è una coppia di fotografi costituito da Maria Palmieri e Domenico d'Alessandro che opera in Puglia. Il loro lavoro si concentra sui limiti di rappresentazione del medium fotografico e dai processi di creazione legati a esso. Nel 2016 il corpo di lavoro Boundary as a frame è stato finalista per il Prix Levallois.
DD: Un altro tema molto importante è il tema di “limite” e “confine”. Non solo intesi in senso fisico, ma anche attraverso una lettura filosofica di questi. Ovvero concepire il limite come qualcosa di mentale in principio e solamente in seguito in maniera fisica. Questo comporta una rilettura dei movimenti delle persone, del concepire il Mediterraneo come un confine, anziché essere un ponte come storicamente è stato. E comprende anche la quotidianità di un migrante in Italia, nel sfuggire ai meccanismi di sfruttamento, come avviene nella realtà che avete documentato dove i migranti si sono ormai stabiliti in una fabbrica abbandonata, anche per sfuggire dalla gabbia del caporalato. Qual è la relazione tra il tema del confine e del limite con le cornici che mettere ai vostri ritratti?
RP: Le cornici sono parte integrante delle immagini in questo progetto e rappresentano il confine come forza di controllo, che limita, categorizza e spesso esclude. Sono funzionali nel progetto in relazione alle storie personali di ogni singola persona. Siamo interessati a personalizzare un processo troppo spesso analizzato e storicizzato ma che perde tatto con le storie intime e personali di queste persone.
DD: Questo progetto in particolare si pone in maniera alternativa alla tradizione sensazionalista del fotogiornalismo tradizionale. Al contrario, vengono mostrate persone allegre e sorridenti, ma soprattutto in maniera dignitosa. Che rapporto si è creato tra voi e i vostri soggetti?
RP: Dall’inizio abbiamo deciso di creare con loro una relazione basata sulla fiducia e sul rispetto reciproco. Il fatto che vivessimo nella stessa città e che fossimo coetanei ha permesso di avere molte cose in comune: i viaggi, lo stare lontani da casa, i problemi con il mondo del lavoro ed i soprusi subiti per sua causa, la necessità di evasione.
DD: Boundary as a frame è stato esposto pubblicamente in Piazza Duomo di Lucera, attraverso dei pannelli molto grandi. Che cosa può aggiungere a questo progetto, giocare con la fisicità dell’immagine?
RP: Seppur grati alla cultura digitale dell'immagine, in quanto fonte creativa di questo lavoro, la diffusione digitale delle immagini del lavoro Boundary as a Frame è stata per noi un limite molto importante in quanto questo lavoro è stato pensato come una sovrapposizione di layer tridimensionali. Ovviamente siamo riconoscenti all'internet per averci permesso di trascendere i limiti territoriali della sua diffusione. La tridimensionalità si è concretizzata inizialmente nella mostra alla Galerie de l'Escale di Parigi, all'interno dell'esposizione dei lavori premiati al Prix Levallois 2016. Riguardo l'installazione di Lucera, invece, la tridimensionalità era passiva. la possibilità di creare un murale lungo 18 metri ed alto 3, ha permesso alle immagini di dialogare pubblicamente con una audience molteplice permettendo al valore a politico delle immagini di esondare rispetto a quello concettuale dei limiti di rappresentazione della fotografia.
DD: Come hanno reagito comunità locali e istituzioni?
RP: La cosa che ci ha meravigliati molto è stata la freddezza con la quale l'approccio di questo lavoro è stato accolto dai festival e dai concorsi italiani a differenza invece della Francia. Forse per la natura concettuale unita ad un fenomeno così delicato come quello della migrazione oppure per il linguaggio non specificatamente fotografico o per demerito nostro. Ad ogni modo il lavoro è stato presentato in più occasioni all'interno di festival, riviste e incontri con gli studenti di fotografia.
DD: Avete intenzione di continuare a trattare di migrazione con questo approccio?
RP: Si, l'idea è quella di continuare in primavera, questa volta lasceremo la pianura ci avvicineremo al mare. Andremo a Bari. Questa volta però indirizzeremo la nostra ricerca verso un altro gruppo sociale. Stay tuned!
Dimitri D'ippolito: Parlateci un po’ di come è nato Rumore Pair e di come lavorate come duo.
Rumore Pair: Rumore Pair è un duo che da due anni circa ha deciso di lavorare insieme, preferendo, attualmente, al lavoro individuale quello in collettivo. Attualmente si è deciso di aprire uno studio commerciale, uno spazio che è anche il nostro laboratorio creativo.
Noi come lavoriamo in duo? È una bella domanda! trovare un flo conduttore del nostro modo di interfacciarci non è semplice. Nel caso di “Creations”, il nostro primo lavoro, all'intuizione è seguita una lunga fase di studio. L'idea era quella di rendere un lavoro di scientific fiction mediante la fotografa. L'utilizzo di un mezzo fedele di riproduzione del reale in questo lavoro ci ha permesso di rappresentare qualcosa che non può, almeno attualmente, essere rappresentato. Ci interessa molto questa possibilità della fotografa di autosvelarsi, e permettere allo spettatore di comprendere l'inganno. Nel caso di “Boundary as a frame” invece il processo è stato opposto avendo realizzato le sovrapposizioni solo dopo aver terminato il lavoro. Di conseguenza la sua reale portata concettuale è venuta alla luce solo dopo. Era dentro, nell'intuizione iniziale, ed è venuta fuori man mano, fino a concretizzarsi alla vista del risultato. Questa tensione rappresenta d'altronde le due peculiarità del duo, una più istintiva e fuida e l'altra più analitica e concettuale.
DD: Boundary as a Frame è il vostro secondo progetto. Quali sono gli intenti e com’è nato questo lavoro.
RP: L'intento è quello di rappresentare l'ambivalenza del concetto/simbolo di confine, inteso sia nell'accezione politica sistemica, che in quella interna inerente al medium fotografico. Nel nostro lavoro il confine diventa spazio vitale entro il quale generiamo un nuovo spazio. La sovrapposizione delle mappe sulle quali si impone una biografia, una singola ed irripetibile storia migratoria, simile ma non per questo identica a tutte le altre, si interseca con i limiti del medium fotografico e della stratificazione simultanea possibile con l'internet. Volevamo ritrarre i ragazzi africani incontrati secondo i canoni estetici, da loro stessi riprodotti, quelli che per gli addetti si definisce vernacular photography. La visione di pubblicazioni cartacee e digitali poi ci ha spinto fino alla visione delle foto che oggi i ragazzi africani scattano con gli smartphone e condividono sui social. Ci siamo meravigliati di una costante: la presenza di cornici posticce o generate da applicazioni ad hoc, che restringendo lo spazio intorno la foto, estraniavano il soggetto ritratto dal contesto, non permettendo di risalire ad i luoghi di permanenza e neanche di intuirli. Dopo la fase di shooting è nata l'idea di reinterpretare la cornice con qualcosa che rendesse più complessa l'immagine, chiarificandola. L'idea della stratificazione delle mappe tende esattamente in questa direzione.
DD: Questo progetto tocca molti temi importanti del nostro tempo. Quando si parla di migrazioni in Italia, non ci si può sottrarre dal parlare di Mediterraneo. Che legame assume il Mediterraneo al vostro essere una coppia di artisti pugliesi?
RP: Ci consideriamo Mediterranei e ciò che ci divide storicamente ci ha sempre uniti, a partire da ancor prima dell’ascesa delle religioni monoteiste. Il mar Mediterraneo, come inteso da Fernand Braudel. Siamo interessati nell’analizzare il contrasto tra la naturale propensione alla libertà di movimento degli uomini e l’eterno tentativo di gestione dei flussi migratori in maniera qualitativa e numerica da parte dagli stati e dalle organizzazioni internazionali e religiose. In questo lavoro, la consapevolezza dei limiti del medium fotografico e l’ossessione contemporanea alla totale documentazione ci ha portato ad utilizzare le mappe come parte di una testimonianza.
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